Dislessia e lettura - da Giancarlo Cavinato
DISLESSIA E LETTURA
La migliore elaborazione pedagogica sulla lettura e la ricerca in neuroscienze devono incontrarsi e lavorare insieme su modalità di apprendimento della letto-scrittura che non rendano i bambini – in particolare quelli più deboli o divergenti – ‘prigionieri dello strumento’. Cioè, non autentici ‘lettori’, ma ‘decifratori’.
Nella nostra esperienza, tali modalità si trovano particolarmente nel metodo naturale, un metodo che non sia pregiudizialmente né fonico-sillabico né puramente globale, ma che assecondi i processi di ricerca e gli stili di apprendimento dei soggetti.
Ma nessun apporto può essere trascurato: l’alfabetizzazione popolare di Paulo Freire come le elaborazioni di Smith e Foucambert sulla lettura, come le ricerche di Ferreiro e Teberosky.
Da alcuni anni si legge sui quotidiani e non solo che la ‘colpa’dell’ aumento di casi di dislessia e delle difficoltà di apprendimento sarebbe del metodo adottato prevalentemente a scuola, o che tale metodo rinforzerebbe tali difficoltà, individuando il metodo globale quale causa fondamentale di tale aumento di insuccessi nella popolazione scolastica.
Si ottiene così l’effetto di un ritorno di molti insegnanti alle tecniche di alfabetizzazione ritenute più ‘semplici’ e ‘sicure’, ma che impoveriscono e banalizzano la fondamentale esperienza dell’incontro con il codice scritto.
Uno dei termini del dibattito sembra scomparso: fino agli anni 70 si discuteva sulle modalità di apprendimento della lettura e della scrittura dividendosi fra sostenitori del metodo fonetico ( i ‘mattoni’ della costruzione linguistica, al significato si approdava dopo averne appreso la composizione in parole e in ‘pensierini’) e del metodo globale ( il significato da subito, quindi parole e frasi). Oggi sembra prevalere la corrispondenza grafo-fonica e l’assimilazione della ‘forma’ delle parole.
Mancava, nel periodo suddetto, l’esito delle ricerche sulla costruzione della lingua scritta. condotte in Argentina e in Messico da Emilia Ferreiro e Ana Teberosky a metà anni 70, di cui ora disponiamo.
Emilia Ferreiro stigmatizza i metodi di insegnamento della lettura che ne rendono difficoltoso e instabile l’apprendimento proprio perché partono dalla presentazione delle lettere e delle sillabe.
Molti autori, da Freinet in poi, avevano sollevato l’osservazione che, procedendo con analoga progressione nell’apprendimento della lingua parlata, nessuno imparerebbe a parlare.
Ferreiro considera una grave mancanza di rispetto nei confronti delle procedure di ricerca dei bambini nel periodo di costruzione della lingua scritta il non tener conto delle diverse fasi
e convinzioni che tali procedure mettono in evidenza come fasi transitorie; fasi che spesso vengono scambiate per indici di patologie e non per indizi di processi di pensiero.
‘Molte volte si diagnosticano disturbi di apprendimento rispetto al modello adulto ignorando l’evoluzione....Abbiamo visto troppa patologia lì dove c’erano momenti normali nell’evoluzione e problemi legittimi che il bambino cerca di risolvere. Io considero urgente depatologizzare questo campo. Non nego che ci siano disturbi dell’apprendimento, ma sicuramente c’è meno patologia di quella che abbiamo contribuito a inventare, convalidando, dal punto di vista della diagnosi psicologica, una decisione scolastica che è necessario mettere in discussione’. ( E. Ferreiro,...., pp. 36-37)
Giacomo Stella negli anni 80 distingueva fra dislessici autentici e cattivi lettori, lettori cioè le cui pratiche di lettura non erano sufficientemente stimolate e supportate così da divenire autonome procedure di ricerca sullo scritto, ma da dipendere costantemente di una sonorizzazione e di una successiva sintesi ( fusione) lente e faticose.
Ferreiro avvalla e sostiene quanto aveva messo in evidenza Jean Foucambert ( in ‘Come si diventa lettori’) dell’Association française de lecture che sostiene che la dislessia è una patologia della decifrazione e non della lettura.
La decifrazione, sostiene Foucambert, passa necessariamente per la sonorizzazione, che richiede un tempo maggiore di esecuzione. Di conseguenza soggetti che riconoscono a fatica le corrispondenze segni-suoni trovano una maggior difficoltà di stabilire relazioni fra parti di discorso, quindi di estrarre significato da un testo.
Foucambert sostiene anche che il successo nella lettura e nella comprensione è legato alla conoscenza previa, da parte del soggetto, di almeno l’80% dei termini contenuti nel testo.
Il che richiede, da parte degli insegnanti, un’accurata selezione di ‘buoni’ testi adeguati alle competenze semantiche, lessicali, sul mondo dei soggetti.
Bruno Bettelheim in ‘Imparare a leggere’ aveva analizzato accuratamente i libri di testo in uso, ricavandone la conclusione che contenevano una quantità di termini obsoleti o sconosciuti e dei livelli di banalità tali da far congiuntamente perdere interesse per la lettura anche a bambini dotati di intelligenza e curiosità, impedendo così a molti l’accesso agli apprendimenti di base.
Bruno Ciari scrisse ‘La grande disadattata’ alludendo alla scuola. Oggi il timore è che invece di pensare a come ‘curare’ la scuola modificandola si cerchino i deficit, le carenze, i disadattati, per curare i soggetti, senza avere la pazienza, il tempo, gli strumenti, senza cercare di capire, senza investire sulla formazione e sulla ricerca.
La problematica della dislessia, della disortografia, della discalculia ( le ‘DSA’) non è nuova in Italia e a periodi torna ad occupare le preoccupazioni di insegnanti e famiglie: tutti ricordiamo il libro di Pirro, un giornalista che ha lottato per aiutare il proprio figlio sentendosi abbandonato dalle istituzioni; ricordiamo anche testi quali Jadoulle, Bonistalli e il MCE fiorentino negli anni ’70 ( che avevano individuato non solo nella percezione ma anche in una corretta pratica psicomotoria forme di intervento umane e significative), le schede Frostig, i suggerimenti di Doman e Delicato, il lavoro di Giacomo Stella. Nascono anche associazioni di famiglie quale l’AID. Al CEIS di Rimini viene istituito un servizio specializzato nel trattamento che si fonda non solamente su schede di recupero ma sullo schema corporeo, sulla rappresentazione e sull’azione coordinata nello spazio, sull’interiorizzazione di schemi posturali e grafo-motori.
Con il ministro Moratti si dà alle famiglie la sensazione che il problema è noto e può essere affrontato in modo coordinato fra scuola e servizi, ma molta parte della diagnosi e dell’intervento vengono affidati a servizi privati e l’indicazione di lavoro alle scuole è di assumerne le indicazioni ( come se fosse lo stesso un rapporto clinico o un intervento nel contesto classe); soprattutto si forniscono alle famiglie e alle scuole autorizzazioni alle ‘dispense’ e all’uso di strumenti mediatori e integratori; ma questi non sono sufficienti se non vi è una corrispettiva formazione e sollecitazione a fornire più stimoli e un insegnamento a carattere multimodale, e se questa indicazione non viene estesa all’insieme degli stili di elaborazione e delle strategie di apprendimento presenti in una classe. In sostanza, se l’insegnamento rimane prevalentemente verbale e appoggiato al manuale, e non si modifica in profondità nella direzione della costruzione di conoscenze tramite la relazione sociale e la ricerca personale, e la revisione costante dei propri modelli attraverso appoggi e apporti dell’insegnante e del gruppo, l’alunno con deficit o con una cattiva impostazione di base dovrà sempre compiere sforzi sovrumani per inseguire il ritmo imposto alla classe.
Le circolari ‘dispensative’, se non accompagnate da adeguate indicazioni pedagogiche, rischiano di avvalorare un diritto ad una conoscenza ‘ridotta’ quando per bambini problematici occorre un aumento di stimoli e di ore di scuola con adeguate osservazioni da far entrare in circolo fra i diversi educatori; non tanto e non solo esoneri che possono affievolire l’autostima, creare dipendenza, diminuire l’autonomia, quando occorre intervenire sulle potenzialità presenti, sull’autoattribuzione di competenze ( cfr. Varisco, ‘Il portfolio’, Carocci)
Un tempo i non vedenti erano dispensati dallo scritto di matematica perché si riteneva che non disponessero di intelligenza spaziale. Oggi abbiamo non vedenti matematici e informatici ( è toscana la prima non vedente in Europa laureata in informatica e che ha ottenuto il dottorato di ricerca concorrendo con candidati vedenti).
Una ricerca condotta negli U.S.A. ha segnalato che i non vedenti rischiano di diventare analfabeti, perché ‘dispensati’ dal Braille ( solo il 10% lo conosce e lo pratica), e in Italia il rischio è analogo.
Gli insegnanti ( a fronte di tanto apparato scientifico oggi dispiegato) rimangono forse timorosi di possibili errori, con la sensazione di non poter pienamente rispondere alle aspettative delle famiglie, e spesso delegano il proprio compito agli specialisti, rinunciando a una funzione di guida, orientamento, spinta all’apprendistato cognitivo, a un approfondimento delle loro competenze didattiche, con un ritorno al ‘semplice’ e al tecnico.
.Dunque si hanno bambini che dopo la scuola vanno ‘a ripetizione’ di lettura, anche un’ora al giorno, in situazioni di tipo ambulatoriale clinico - il bambino e l’adulto- che prescindono dagli aspetti relazionali, affettivi, comunicativi fra soggetti bambini, che sono intrinseci alla lettura stessa se questa non si riduce a puro tecnicismo.
I costi per le famiglie sono elevati, perché richiedono l’affidamento a una serie di tecnici- logopedisti, psicomotricisti, neuropsichiatri, psicologi, inclusi i costi della partecipazione dei tecnici suddetti ai gruppi di lavoro presso le scuole.
Eppure la stessa ricerca che ha preso in esame il fenomeno della dislessia come prevalentemente o puramente neurologico, avanza il dubbio, l’ipotesi, che la dislessia possa essere un effetto e non la causa di un cattivo costume nella lettura come sostenevano Stella e Ferreiro.
Oliver Sacks ci parla della ‘misteriosa capacità del cervello di apprendere, adattarsi e svilupparsi’. Il che fa ritenere che una visione statica della dislessia come di un difetto di nascita, determinato biologicamente, forse non è il miglior approccio né il più utile a una presa in carico dei problemi dei bambini.
Quando la scienza, una certa scienza, è troppo sicura di alcuni traguardi e non si confronta con altre posizioni, ipotesi, pratiche, sembra perdere l’aspetto fondante la scienza stessa, che è ricerca, confronto. Dubbio. Ricerca non solo di ipotetiche cause, ma di come ‘aggirare l’ostacolo’, fare di un problema una risorsa.
Per questo il metodo naturale, con le molteplici strategie che mette in atto, ci sembra una risposta ai tanti dubbi e ansie, una risposta aperta e umanisticamente sostenibile.
Bruna Campolmi
Giancarlo Cavinato
Marzo 2011